giovedì 12 maggio 2011

Dal lassaiz-faire al lasciar fare affari: il lato italiano della vicenda.


“Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa.” (Karl Marx).

La massima del laisser-faire (lassez-faire) è stata attribuita al mercante Legendre, siamo verso la fine del XVII secolo:  essa nasce da uno scambio di battute tra Legendre e  Colbert, quando quest’ultimo  chiese al primo: “Que faut-il faire pour vous aider?”    Legendre  rispose: “ Nous laisser faire.” Nasceva così la fortunata formula che sintetizzava l’esprit del libero mercato che avrebbe dominato per più di due secoli, fino a quando J.M. Keynes non ne decretò la fine, in sua  famosa conferenza  ad Oxford nel 1924.
Ma si sa che la fine di una  storia coincide con un nuovo inizio, ovvero, le stesse cose ritornano: dagli anni ’80 del sec. XX, dopo  la parentesi dei trenta gloriosi, non abbiamo sentito parlar d’altro che di libero mercato, almeno fino allo scoppio della recente grande crisi del capitalismo finanziario: il libero mercato, il “laisser-faire” di Legendre, aveva ripreso il sopravvento, potenziato  da un progressivo smantellamento dei residui controlli. Nel 1999 veniva promulgata, dal presedente Clinton,  la nuova legge bancaria nota come il Gramm-Leach-Bliley Act che abrogava quelle disposizioni  del   Glass-Steagall Act del 1933 che prevedevano la separazione tra attività bancaria tradizionale e  Investment Banking. Insomma il laissair-faire si trasformava in lasciar fare affari al capitalismo finanziario e speculativo.

Parliamo della   vicenda che si è consumata a latere della recente assise di Confindustria. Come è ormai a tutti noto, in Italia non sono state adottate, nel corso degli ultimi due anni,  contromisure efficaci per contrastare  gli effetti reali della crisi sull’economia. Ma  una soluzione  tutta italiana, in una qualche misura si è andata delineando: quando il  capo del governo,  presentando il decreto sviluppo, vera panacea dei mali  dell’economia  italiana, aveva esclamato: “perché gli industriali non fanno qualcosa per noi?” forse raccogliendo un suggerimento del suo super ministro,  novello Colbert in Sella;  ha  risposto, risentita la signora Confindustria: “Noi facciamo tutti i giorni qualcosa per il Paese”. Ora, da questo risentito scambio di punti di vista, è scaturita, piuttosto che  una  nuova fortunata massima che gettasse nuove speranze sui destini del capitalismo globale, l’idea della «privatizzazione della gestione dell'Istituto del commercio estero (Ice), per  dare nuova spinta all’internazionalizzazione dell’economia italiana; ma noi che siamo convinti che a pensar male non si sbaglia mai, l’abbiamo intesa come l’occasione, per introdurre il libero arbitrio nelle attività di esportazione dei capitali all’estero, dando soddisfazione all’invocazione del capo della cricca affaristico delinquenziale.

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